“Nei campus Usa vietati anche i convegni su Gaza”- “L’ultima repressione così è del ’68”.

Campus USA

“Le nostre università investono nei più grossi produttori di armi e stanno attivamente facendo profitti con le bombe scaricate sulle donne e i bambini di Gaza. Noi del gruppo Jewish Voice for Peace (“Ebrei per la pace”) siamo qui per dire: non ci può essere libertà se non siamo tutti liberi”. Insieme agli Ebrei per la pace, il 17 aprile, centinaia di studenti della Columbia University hanno montato un accampamento di solidarietà in segno di protesta contro il brutale attacco al popolo palestinese: stanno dicendo basta alla complicità economica e ideologica della loro prestigiosa istituzione con politiche di guerra, chiedono che si ponga fine alla strage di innocenti e tanto più lo fanno ora che il Congresso ha approvato un nuovo finanziamento a Israele da 26 miliardi di dollari.

Proteste del genere sono in corso in molti campus universitari statunitensi, anche in quello in cui insegno qui a New York, la New School for Social Research, nonostante uno sforzo immane per ammutolire il dissenso in tutti i settori. Il giornale Intercept, ad esempio, ha reso noto un memorandum interno del New York Times, in cui la editor Susan Wessling fornisce ai suoi giornalisti linee guida precise: limitare l’uso dei termini “genocidio” e “pulizia etnica”, evitare l’espressione “territorio occupato”. E ancora: il 18 aprile la polizia ha arrestato e Google licenziato 28 dipendenti di “The Big G” che occupavano gli uffici dei dirigenti in protesta contro il nuovo contratto da 1,2 miliardi tra l’azienda e l’intelligence militare israeliana.

La nuova ondata di maccartismo si sta però abbattendo soprattutto sui campus universitari, che pure dovrebbero essere i più seri garanti del tanto celebrato marketplace delle idee: da giorni la polizia presidia gli atenei e decine di studenti vengono addirittura arrestati in giro per la città.

Sono stata personalmente testimone della sospensione dall’insegnamento di professori che avevano espresso posizioni critiche nei confronti delle politiche di Israele, della cancellazione e censura di eventi culturali, persino della sospensioni di interi gruppi studenteschi: io stessa sono stata segnalata e investigata dalla mia università per aver organizzato un convegno accademico sull’economia palestinese con due importanti studiosi, Rashid Khalidi (Columbia) e Marc Lamont Hill (CUNY Graduate Center).

La battaglia che in questi giorni si combatte alla Columbia è un caso emblematico del clima nelle accademie americane. Nelle stesse ore in cui gli studenti occupavano il prato davanti alla biblioteca del campus universitario con cartelli e tende, la rettrice Nemat Shafik – in audizione al Congresso statunitense – chinava la testa di fronte agli attacchi dei parlamentari che la accusavano di eccessiva indulgenza nei confronti dell’“antisemitismo”. Determinata a non fare la fine delle sue colleghe di Harvard e Mit, costrette a dimettersi, la mattina successiva Shafik ha ordinato al dipartimento di polizia di New York di liberare il campo: “Non ho mai visto nulla di simile in vita mia” mi racconta il collega Luca Falciola, docente alla Columbia, “eppure di proteste interrotte ne ho viste tante. Studenti circondati da centinaia di poliziotti della strategic response che brandivano il manganello, elicotteri e droni sopra le nostre teste. Il contrasto tra l’accampamento pacifico e la reazione violenta della polizia ha lasciato tutti a bocca aperta”. Il risultato: 108 studenti arrestati, sospesi e cacciati dai loro dormitori con meno di 15 minuti per fare le valigie e i loro averi buttati in un vicolo adiacente. Il più imponente arresto di studenti dal 1968.

La repressione, però, finora ha ottenuto il risultato opposto a quello sperato: ha scatenato una reazione collettiva di proporzioni crescenti in solidarietà con chi protesta. Il doppio degli studenti della Columbia, per nulla intimoriti, insieme a centinaia di manifestanti, hanno subito rioccupato il prato dell’università (che ha immediatamente chiuso gli ingressi).

Domenica anche nella mia università sono comparse le tende: lunedì, mentre facevo lezione tra i manifestanti, la polizia ha provato a sgombrare la zona innescando una protesta ancora più vivace. Lo stesso è accaduto alla Ney York University. I politici e i grandi donatori che vogliono tappare la bocca al dissenso (gli ex-alunni miliardari della Columbia, seguendo l’esempio di Harvard, hanno messo in atto una one dollar campaign inviando assegni da un solo dollaro al posto di quelli milionari a cui avevano abituato le loro ex università) sembrano trovarsi di fronte una determinazione inaspettata.

DI CLARA MATTEI

Fonte: https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/

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