Viaggio nella lunga storia dell’antifascismo Cgil

Bandiera CGIL

Dagli anni del regime al dopoguerra, fino a oggi, il sindacato ha sempre posto un argine allo “squadrismo” antidemocratico. E ne è sempre stato un bersaglio

La Confederazione Generale del Lavoro (CGdL) nasce al primo Congresso di Milano del 29 settembre – 1° ottobre 1906. Le prime strutture sindacali erano nate in Italia negli ultimi decenni dell’Ottocento. La fase pre-sindacale è caratterizzata dallo sviluppo delle Società di mutuo soccorso, le prime forme di associazionismo operaio. Il mutualismo aveva lo scopo di fornire assistenza ai soci in caso di disoccupazione, infortunio, malattia e vecchiaia, escludendo il ricorso alla lotta di classe.

La fase sindacale vera e propria inizia con i primi scioperi, promossi tra gli anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento. Il progressivo passaggio dal mutualismo alla resistenza si intensifica negli ultimi anni del secolo, in coincidenza con l’avvio, anche in Italia, della rivoluzione industriale.

Il biennio nero

Finito il massacro della Prima guerra mondiale, in molti Paesi europei, anche sull’onda delle notizie rivoluzionarie provenienti dalla Russia, scoppiano numerose rivolte popolari. Anche l’Italia registra un periodo di accesa conflittualità sociale: il “biennio rosso” (1919-20). Protagonisti di questa fase sono i braccianti nelle campagne, mentre nell’industria operano i Consigli di fabbrica. Al “biennio rosso” segue in Italia il “biennio nero” (1921-22), segnato dall’attacco violento che i fascisti scatenano contro il movimento operaio e le fragili istituzioni dello Stato liberale.Dopo l’assalto alla sede del Comune di Bologna nel novembre 1920, si moltiplicano i casi d’incendio e saccheggio operati dalle squadracce nere contro le Camere del lavoro, le Case del popolo, le cooperative, le leghe; molti dirigenti della sinistra rimangono vittime della violenza fascista.

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Nella sola pianura padana, nei primi sei mesi del 1921, gli attacchi operati dalle squadre fasciste sono 726: 59 Case del popolo, 119 Camere del lavoro, 107 cooperative, 83 leghe contadine, 141 sezioni socialiste, 100 circoli culturali, 28 sindacati operai, 53 circoli ricreativi operai sono vittima delle violenze. “Erano i figli di un’Italia che li mandava avanti a spaventare la gente, a portare confusione (…) erano gli ‘Arditi’ plagiati, usati (…) Quella giovane teppaglia mi faceva orrore e pena”, commenterà anni dopo Pietro Nenni.

Il fascismo al potere

Il 28 ottobre 1922, con la marcia su Roma, Mussolini prende il potere. All’inizio del 1925 il duce decide una svolta in senso “totalitario” attraverso una serie di provvedimenti liberticidi (le “leggi fascistissime”), che annullano qualsiasi forma di opposizione al fascismo.

Sul piano sindacale, con gli accordi di Palazzo Vidoni del 2 ottobre 1925, Confindustria e sindacato fascista si riconoscono reciprocamente quali unici rappresentanti di capitale e lavoro abolendo le Commissioni Interne. La sanzione ufficiale di tale svolta arriva con la legge 563 del 3 aprile 1926, che riconosce giuridicamente il solo sindacato fascista (l’unico a poter firmare i contratti collettivi nazionali di lavoro), istituisce una speciale magistratura per la risoluzione delle controversie di lavoro e cancella il diritto di sciopero.

Il 4 gennaio 1927, in seguito ai provvedimenti emessi dal fascismo, il vecchio gruppo dirigente della CGdL, tra cui Rinaldo Rigola e Ludovico D’Aragona, decide l’autoscioglimento dell’organizzazione. Contro tale decisione, nel febbraio 1927, Bruno Buozzi ricostituisce a Parigi la CGdL, la quale aderisce, insieme ad alcuni partiti, alla Concentrazione d’azione antifascista. Nello stesso mese, durante la prima Conferenza clandestina di Milano, i comunisti danno vita alla loro Confederazione generale del lavoro. In questo modo, dalla fine degli anni Venti e fino alla caduta della dittatura fascista, convivono di fatto due CGdL: una d’ispirazione riformista, aderente alla Federazione sindacale internazionale; l’altra comunista, aderente all’Internazionale dei sindacati rossi.

Fino alla metà degli anni Trenta i rapporti tra le due confederazioni si mantengono tesi, soprattutto a causa della decisione presa dalla Terza internazionale di contrastare i riformisti, accusati di “socialfascismo”. Quando però il pericolo fascista diventa più concreto, soprattutto in seguito alla presa del potere da parte di Hitler in Germania (gennaio 1933), le diverse componenti della sinistra riescono a trovare un terreno comune d’iniziativa, evidente nella politica dei Fronti popolari in Francia e Spagna.

Gli effetti si faranno sentire sia sulla politica italiana – con la firma nel 1934 del Patto di unità d’azione tra Pcd’I e Psi – sia sul sindacato. Il 15 marzo 1936 Buozzi e Di Vittorio si incontrano a Parigi per firmare la “piattaforma d’azione della Cgl unica”.

La guerra e gli scioperi

Già prima della caduta di Mussolini, avvenuta il 25 luglio 1943 in seguito al voto del Gran consiglio del fascismo, settori importanti delle classi lavoratrici del Nord erano tornati a scioperare contro il regime.

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Tra il 5 e il 17 marzo 1943, le fabbriche torinesi sono bloccate da una protesta che coinvolge 100 mila operai. Dietro alle rivendicazioni economiche, le agitazioni hanno un chiaro intento politico, ossia la fine della guerra e il crollo del fascismo. Un’ondata che da Torino si estende alle principali fabbriche del Nord Italia.

Con gli scioperi del marzo 1943 succede qualcosa di nuovo in Italia. In pochi giorni, dopo il via dato da Torino, nel triangolo industriale 300 mila operai cominciano la lotta e questa assume un significato politico enorme e immediato, anche se, fabbrica per fabbrica, vengono avanzate dagli operai solo rivendicazioni salariali precise e limitate.

“Gli scioperi del marzo 1943 – riportava nel 1975 un dossier a cura di Aldo De Jaco – (fra l’altro conclusi non solo con un grande successo politico, ma anche con esito positivo dal punto di vista economico) hanno un grande rilievo nella storia dell’unità dei lavoratori. Essi ne esprimono infatti la resurrezione come massa dopo più di venti anni di feroce oppressione di classe e pongono le basi di una unità nuova delle grandi correnti sindacali storiche che già avevano guidato i lavoratori fino alla dittatura e poi anche nella clandestinità. Questa unità sarà poi sancita dal Patto di Roma dell’anno dopo, che darà vita alla Cgil unitaria”.

“Gli scioperi del marzo del 1943 – scriveva Oreste Lizzadri – ratificarono, dopo un mese di lotta, non soltanto la vittoria dei lavoratori sul terreno salariale. Essi segnarono qualche cosa di più: la prima, grande vera sconfitta del fascismo nei suoi elementi ritenuti i più vitali, quali la potenza della forza repressiva poliziesca e di partito, il mito della sua organizzazione, la decantata adesione totalitaria dei lavoratori e del popolo italiano al regime”.

La Resistenza inizia dalle fabbriche

La Resistenza la iniziano i lavoratori. E loro la concludono, occupando le fabbriche due anni dopo alla vigilia del 25 aprile 1945. Insorgendo, scioperando, nuovamente nel marzo del 1944. Il 1° marzo 1944 tantissimi lavoratori (secondo il ministero degli Interni circa 210 mila, di cui 32 mila solo a Torino; secondo Leo Valiani, d’accordo anche Paolo Spriano, perlomeno 500 mila operai e impiegati) incrociano le braccia malgrado la repressione, la minaccia di licenziamento, la paventata deportazione in Germania.

Agli scioperi aderiscono centinaia di migliaia di operai, impiegati, tecnici e perfino dirigenti di ogni categoria produttiva e servizio pubblico: tranvieri, ferrovieri, postelegrafonici, dipendenti statali e municipali, bancari e assicuratori, studenti di molte scuole superiori e di alcune università; scioperano anche i dipendenti del Corriere della Sera di Milano.

“In fatto di dimostrazioni di massa – scriveva il New York Times il 9 marzo 1944 – non è avvenuto niente nell’Europa occupata che si possa paragonare con la rivolta degli operai italiani. È il punto culminante di una campagna di sabotaggio, di scioperi locali e di guerriglia che hanno avuto meno pubblicità del movimento di resistenza altrove, perché Italia del Nord è stata tagliata fuori dal mondo esteriore. Ma è una prova impressionante, che gli italiani, disarmati come sono e sottoposti a una doppia schiavitù, combattono con coraggio e audacia quando hanno una causa per la quale combattere”.

“Le notizie del grande sciopero generale – scriveva l’Unità il 10 marzo – sono risuonate come una sveglia, come un grido di guerra in tutta l’Italia occupata (…) I lavoratori italiani non rientreranno nelle fabbriche domani. Si sbaglierebbe di grosso chi credesse che hanno capito che è inutile lottare, che contro i tedeschi non è possibile farcela. Proprio il contrario; i lavoratori hanno imparato a conoscere la loro forza, la lotta di quando sono compatti e decisi, hanno capito che non basta più lo sciopero pacifico, per difendere la propria vita bisogna andare oltre. Tornano nelle fabbriche a continuare la lotta, a preparare l’insurrezione nazionale, l’azione armata per dare il colpo decisivo”.

“Lo sciopero generale politico rivendicativo del 1-8 marzo – scriveva La nostra Lotta – assume un’importanza e un significato nazionali e internazionali di gran lunga superiori agli obiettivi immediati che esso si poneva, indica la strada da seguire nel prossimo avvenire in cui si annunciano grandi e decisive battaglie, in Italia e nel mondo, per l’annientamento del nazifascismo e la liberazione dei popoli. Gli operai italiani che l’hanno sostenuto, i lavoratori e i patrioti che l’hanno appoggiato, le organizzazioni che l’hanno preparato e diretto possono essere fieri e orgogliosi della grande battaglia combattuta: essa s’iscrive fra le migliori pagine della lotta dei popoli per la propria libertà e costituisce una tappa decisiva per il risorgimento della nostra patria. I sacrifici di oggi sono il prezzo e il pegno del sicuro trionfo di domani”.

Ilaria Romeo

Fonte: https://www.collettiva.it/

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