Fammi Sognare, di Luigi Mezzacappa

L'Avana il Capitolio

In quasi tutte le notti dell’anno, una stella luminosa brilla orgogliosa nel cielo di Cuba, a sentinella dei suoi figli. È una stella importante per i Cubani perché brilla anche nella loro bandiera. È anche il gioiello al centro della corona del loro patrono, la Santa Vergine della Carità del Cobre. Ed è la stella del berretto di Che Guevara. Tutti i Cubani sono nati sotto questa stella che li protegge e li fortifica.

La chiamano “La Estrella Solitaria”.

Nel mondo, è conosciuta come Venere, la dea dell’Amore.

Se sei un inguaribile romantico come me, guarda questo film con un respiro

che vada oltre la sua approssimazione tecnica e stilistica…

Eppure lo sapevo, non è mica la prima volta che metto il naso fuori di casa…

Eppure tutte le volte è la stessa storia: mi illudo che il nuovo viaggio mi aiuterà a trovare qualche risposta alle mie domande, e invece poi al ritorno, puntualmente, mi ripeto: “Ah, già che stupido: i viaggi non ti danno risposte, ma solo nuove domande!”

E così, ogni volta, la mia collezione di domande senza risposta si ingigantisce…

In compenso, però, se sei attento e fortunato, un viaggio qualche volta può anche regalarti una risposta a una domanda… che non ti eri fatto!

Curioso!

Questo è il racconto un po’ strano di un viaggio bellissimo ed emozionante, ma… perfettamente inutile. Lo è stato per me, ma sono pronto a scommettere che lo sarebbe stato per chiunque: bellissimo, emozionante e… inutile!

Inutile perché… chiunque visiti Cuba, troverà esattamente quello che cerca: chi vuole vedere le miserie di un regime, le troverà nelle campagne e nei quartieri popolosi della capitale, ma anche chi spera di scoprire se esiste un socialismo romantico che sia in grado di infondere dignità e fierezza sarà accontentato.

La povertà è evidente, ma lo è anche la solare caparbietà di un popolo incapace di arrendersi alle avversità, lo è anche la dignità con cui la povertà viene vestita. Cos’altro può spiegare quella pacata allegria che si respira dovunque? Anche qui siamo in Sudamerica, eppure non c’è traccia di “saudade” e tantomeno di disperazione…

La sensazione che si ha parlando con i cubani è di una grande consapevolezza della loro condizione e, a dispetto di tutto, di una immensa fiducia nel futuro. Come si spiega altrimenti l’amore per i “cubanitos” che avverti tutte le volte che incroci una scolaresca o un’intera famiglia che si tiene per mano? In quanti altri posti, in Sudamerica, puoi scattare foto come queste? In quanti altri posti, nel mondo, puoi trovare una scuola in un villaggio di contadini di 4 case? O un “policlinico” in un paese di 40?

Ci sono cose che non è necessario farti spiegare da nessuno, revolucionario o contro-revolucionario che sia; ci sono cose che vedi e basta, e sono queste che qualche volta danno una risposta alle domande che non ti eri fatto…

La vita, qui, è ancora in sintonia con la natura e con la terra: ti basta vedere come gli animali scorrazzano nelle fattorie, oppure come i cani… “pascolano” anche nel centro dell’Avana, sicuri che nessuno, mai, darà loro fastidio.

L’ambizione, che noi consideriamo un sentimento naturale, qui non porta al logoramento; la frustrazione, se esiste, non è l’effetto di una corsa senza esito verso la ricchezza e la realizzazione personale perché qui il mito della rivincita e del riscatto individuale è stato soppiantato – che ci si creda e che piaccia oppure no – da un altro mito, quello del riscatto di una Nazione, dal ruolo di bordello che le era stato assegnato…

Ah, bella sorpresa per chi pensava che Cuba fosse ridotta al silenzio, terrorizzata da agenti segreti disseminati tra la gente e pronti ad arrestare anche il più timido dei dissidenti…

Non ho avuto la prontezza per rispondere alla signora: “Mi scusi, è vero che il vostro Paese è in pace, ma è il resto del mondo che è in guerra contro di voi, con l’embargo…”

Onestamente, anche se avessi avuto la prontezza non le avrei comunque detto nulla: ho il sospetto che mi avrebbe guardato stupita, né più né meno come faremmo noi con qualcuno che venisse a dirci che l’attuale governo è il migliore che l’Italia abbia mai conosciuto…

“Il dissenso è possibile, anche se chi lo dimostra rischia l’ostracismo, soprattutto sul lavoro”. Mi vien da dire: “Come dappertutto!”

Al Cubano di turno che ti apostrofa “Ciao Italiano!” e ti dice che noi sì, siamo fortunati, provi a spiegare, nel linguaggio più appropriato che puoi, che il liberismo non è “automaticamente” migliore del socialismo, ma leggi sul suo viso il sospetto che tu lo stia prendendo in giro. Allora provi a dire nel miglior spagnolo o inglese che riesci che nessun sistema è perfetto perché è l’uomo a non esserlo, e allora ti sorride. Provi a dirgli che spesso, fuori da Cuba il lavoro, la casa, la scuola e la sanità non ti spettano di diritto, ma te li devi comprare. Provi a ricordargli altri fenomeni che proliferano dove potere politico ed economico vanno in cortocircuito con la criminalità, parole come mafia che conosce benissimo, ma solo perché è colto, e a dispetto di quanto si dice, molto informato. Allora comincia a prenderti sul serio e ad ascoltarti.

Provi a dirgli che sì, certo, la questione delle condizioni di vita è aperta se guarda all’Europa e agli Stati Uniti, ma se si guarda intorno, tra il resto dell’America Latina e lui cubano, non c’è partita. Provi a chiedergli se è vero ciò che dice il primo cartellone di propaganda di regime che noi turisti leggiamo appena arriviamo all’aeroporto dell’Avana: “Ogni notte nel mondo venti milioni di bambini dormono nelle strade. Nessuno è cubano”.
Ti sorride, ti dice che è vero.
Sorrido anch’io, come a dirgli che l’avevo capito.

Cuba è probabilmente il più grande museo dell’automobile a cielo aperto del mondo. La guida ci spiega che per i cubani l’auto non è un lusso, e se possono cercano di non averla. Vederle viaggiare sembra un miracolo, alcune hanno anche 60 o 70 anni; i pezzi di ricambio se li ricostruiscono in casa, i cubani. Si vedono gli assemblaggi più improbabili: ho visto il volante di una Fiat Brava montato su una Chevrolet del ’54!

Ma non per questo i cubani mi fanno tenerezza. Sarò strano, ma mi fanno piuttosto invidia: forse arriverà un giorno in cui a forza di cambiare auto, fra 5 o 5 mila anni avremo esaurito tutte le risorse della Terra e tutta la pazienza dei popoli che abbiamo sottomesso ai nostri capricci. Quel giorno andremo a supplicare i cubani di ripararci l’auto o il frigorifero, e di insegnarci a risparmiare.

C’è, un nervo scoperto, una questione non da poco, sulla quale la comunità internazionale “bacchetta” continuamente Cuba: i diritti umani. Il governo rivoluzionario non è certo senza macchia e la questione sollevata nel 2003 da Amnesty International sulla detenzione di “prigionieri di coscienza” lo testimonia. Ma va anche detto che sempre Amnesty International ha ripetutamente invocato la fine dell’embargo, adducendo ad esso gli enormi danni che Cuba ha dovuto soffrire anche sul piano dei diritti umani.

È una questione molto complessa, come spesso capita, ma paragonare Cuba all’Unione Sovietica di Stalin o alle dittature sudamericane sponsorizzate dagli Stati Uniti come il Guatemala di Rios Montt è certamente un errore, anche secondo i più severi critici del regime.

A Cuba non si verificano “sparizioni” nel cuore della notte, né torture istituzionalizzate come quelle in pratica prima della Revolucion sotto Batista, il Presidente-fantoccio della mafia sostenuto dagli Stati Uniti.

Per comprendere l’atteggiamento di Cuba sui diritti umani, conviene cercare di calarsi nel contesto: l’ideologia socialista tende a privilegiare il senso del dovere rispetto alle libertà individuali, e le necessità fondamentali come l’assistenza sanitaria, l’alloggio e l’istruzione gratuiti rispetto al diritto di possedere un SUV. Dopo 45 anni di sabotaggi e attentati ad opera del sempre più aggressivo vicino statunitense, Cuba si è vista costretta a promuovere una sorta di “solidarietà tra assediati”, sia per tenere a bada i nemici, sia per mantenere il controllo su un popolo sul quale sarebbe stato facile fare pressioni.

Sempre nel 2003, il tono delle recriminazioni contro Cuba è salito a causa della condanna a morte di tre dirottatori che avevano spinto un’imbarcazione di turisti sulle coste della Florida con la minaccia delle armi.

Il ministro degli Esteri, in quell’occasione, dichiarò pubblicamente che Cuba non appoggia la pena di morte e vorrebbe un giorno non averla, ma ha deciso con sofferenza di ricorrervi per difendere un Paese aggredito per oltre 40 anni, perché sente sulle spalle la responsabilità degli effetti di un conflitto che potrebbe mettere a repentaglio la vita di cubani e non cubani, dentro e fuori l’isola.

Per considerare il problema sotto una luce più ampia, potrebbe essere molto utile guardare ciò che accade in altri Paesi dell’America Latina sotto gli occhi di una comunità internazionale immobile.

Come ad esempio in Brasile, dove la Polizia al soldo di imprenditori e proprietari terrieri massacra i ninos de rua; o come in Messico, dove in quindici anni sono state violentate e massacrate 9 mila giovani donne con la complicità della Polizia e dei proprietari delle fabbriche.

Oppure sulla stessa isola, al di là del filo spinato di Guantanamo, dove proprio gli Stati Uniti perseverano nella violazione dei diritti umani, o nello stesso territorio americano, dove tra il 2001 e il 2002 sono state ordinate 156 esecuzioni e, a dispetto di quanto previsto dal Diritto Internazionale sulla inapplicabilità della pena capitale, dal 1995 al 2003 sono stati giustiziati 12 minorenni.

Tutto ciò, mentre la stampa internazionale dà spazio e risalto alla dissidenza cubana, ma sarebbe anche giusto ricordare che nulla di tutto ciò capita a Cuba.

Questo è il film che mi sono fatto di Cuba. “Film” detto tra virgolette…

Qualsiasi idea si abbia in proposito, Cuba è lì a dimostrare, a chi è capace di andare oltre le ideologie e gli schieramenti politici, che “un altro modo” è possibile.

Sedici giorni non sono certo sufficienti per affermare che tutto quello che ho detto e raccontato corrisponde esattamente al vero, ma certamente corrisponde a quanto vorrei che fosse vero.

Ciò che non vorrei, invece, è che mi fosse impedito di continuare a sperare, nel nome di un pragmatismo di convenienza, che se non è adesso e non è a Cuba, possa esistere un giorno in qualche angolo del mondo un’isola felice…

Possiamo continuare… possiamo tornare a crederlo?

Era questa la domanda che non mi ero fatto.

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